Summarize this content to 2000 words in 6 paragraphs in Arabic Gli esplose il cuore la notte del 2 novembre 1975. Le sue suppliche “Mamma! Mamma!” non valsero a fermare la Alfa Romeo che stava per investirlo. Quando l’auto gli sfrecciò sopra, il suo corpo giaceva prostrato su un campo da calcio sterrato, sotto un cielo senza luna. Un vento gelido fischiava tra le baracche di Ostia e, non lontano, il Tevere scorreva lento, nero e denso, come il petrolio, verso il mare. Aveva sostenuto fratture allo sterno, alla mascella sinistra, a dieci costole e a tutte le dita della mano sinistra. Gli si era lacerato il fegato, così come la nuca. Le braccia asciutte e muscolose erano cosparse di lividi color ossidiana. Una lunga striscia di piccoli segni rossi correva sulla pallida colonna vertebrale, tracciando un motivo simmetrico, che corrispondeva perfettamente ai battistrada delle ruote dell’Alfa. Aveva i capelli impastati di terra, sangue e olio, il naso appiattito a destra, l’orecchio sinistro quasi del tutto staccato.Ciononostante, tutti quelli che videro il corpo il mattino seguente sapevano esattamente chi fosse. Potevano ancora distinguere le guance elegantemente infossate, gli zigomi di diamante e le lunghe sopracciglia, dritte e serie sotto la fronte pensierosa. Sapevano tutti che si trattava di Pier Paolo Pasolini.Il regista cinquantatreenne aveva raggiunto fama mondiale con film vincitori del Gran Premio di Cannes, e opere che mescolavano storie di prostitute ciociare con eroi biblici, squallore contemporaneo con mitologia classica. Pasolini era rimasto immune alle lusinghe della fama. Nessuna forma d’arte o credo era riuscita a contenere l’intelligenza scintillante e incorruttibile. Sembrava godere nello sfidare le categorizzazioni. Si schierava con i poveri ma si opponeva alla scuola dell’ obbligato. Criticava il bigottismo sessuale ma scriveva contro l’aborto. Criticava “la dittatura del consumismo”, ma non riusciva a resistere alle auto sportive più costose. E non nascondeva di essere gay in un Paese dove l’omofobia era profondamente radicata.Aveva sostenuto fratture allo sterno, alla mascella sinistra, a dieci costole e a tutte le dita della mano sinistra. Aveva riportato fratture allo sterno, alla mascella sinistra, a dieci costole e a tutte le dita della mano sinistra. Gli si era lacerato il fegato, così come la nuca. Ciononostante, tutti quelli che videro il corpo il mattino seguente sapevano chi fosse: Pier Paolo PasoliniAl momento del suo assassinio, il fil rouge che legava l’opera di Pasolini era il suo crescente disgusto per il mondo moderno, addolcito dalla compassione per il sottoproletariato italiano, che riteneva il capitalismo stesse rapidamente corrompendo. Dopo l’omicidio di Pasolini, il regista Michelangelo Antonioni osservò che il suo contemporaneo era finito “vittima dei suoi stessi personaggi.”Secondo il resoconto della notte che divenne poi quella che nel sistema giuridico italiano è chiamata verità processuale, l’assassino era un adolescente. Giuseppe Pelosi, di 17 anni, aveva confessato poche ore dopo il delitto. Parlava a malapena l’italiano corretto e, con folti boccoli scompigliati e un sorriso sbilenco, sembrava uscito proprio da una fantasia pasoliniana – un altro mendicante tronfio che si aggirava a piedi nudi per le periferie affamate del dopoguerra Romano. Quella sera, Pasolini era andato a prenderlo alla stazione Termini, dove Pelosi e altri giovani facevano i “marchettari”, e lo aveva portato a Ostia. Una disputa sulla natura del sesso a pagamento era diventata violenta — e poi letale. Pelosi aveva agito per legittima difesa.Soprannominato Pino dagli amici e La Rana dalla stampa, a causa degli occhi sporgenti, Pelosi diventò famoso dal giorno alla notte. Mentre veniva scortato fuori dalla stazione di polizia il giorno dopo l’omicidio, si levarono grida al di sopra della folla: “Forza Pino!” “Bravo, Pino!” “Ah Pino! Stai su!”. Questo tipo di adulazione per il reo confesso dell’omicidio di uno dei più grandi artisti italiani sarebbe durata fino alla sua ritrattazione dell’intera faccenda, decenni dopo. Ma, il giorno del suo arresto, un passante nel centro di Roma disse placidamente ai giornalisti, senza scomporsi: “È morto un frocio. E allora?”.“Apra la bocca”. Stefano Maccioni aprì la bocca e guardò in alto al soffitto. Un giovane ufficiale gli raschiò delicatamente le gengive con un batuffolo di cotone. Maccioni si ritrasse leggermente. L’agente rimosse il tampone, osservò con attenzione la saliva opalescente aggrappata al cotton fioc, poi chiuse il campione in una pennetta. Ricontrollò i dati anagrafici del fascicolo di Maccioni: avvocato penalista, nato a Pieve a Nievole, 44 anni, sposato.La luce mielata del sole di Roma si spandeva nella sala della sede del RIS (Reparto Investigazioni Scientifiche), l’agenzia forense italiana. Avevano bisogno di un campione di DNA per escludere Maccioni dalla lista dei sospetti, nel caso in cui lasciasse tracce biologiche sui reperti. Era maggio del 2010 e Maccioni era già da due anni in cerca della verità su ciò che era realmente accaduto la notte dell’omicidio di Pasolini, una ricerca che sarebbe durata 16 anni. Dopo il tampone, attese con impazienza che un agente lo accompagnasse nella stanza sterile dove lo attendevano le scatole delle prove del caso del 1975.All’epoca dell’omicidio di Pasolini, Maccioni era un ragazzino di dieci anni, cresciuto in una tradizionale famiglia dell’Italia rurale: volontariato alla Misericordia, partite di calcio per strada fino al tramonto, messa la Domenica. Sebbene la sua famiglia fosse di mezzi modesti, Maccioni non aveva scelto l’avvocatura per elevare il proprio status sociale. “Se facessi pagare i miei clienti con tariffa oraria come fanno gli americani”, amava scherzare, “guiderei una Ferrari”.Sin dall’inizio, la carriera di Maccioni fu contrassegnata da alcuni dei casi penali di più alto profilo del paese. Nel 1997 fu incaricato di difendere Karl Hass, un ex ufficiale nazista sotto processo per il suo ruolo nel massacro delle Fosse Ardeatine, in cui vennero uccisi 335 civili. Maccioni, che per legge non poteva rifiutare l’incarico, affrontò l’impiego evitando il revisionismo storico, a differenza di altri avvocati che difendevano criminali di guerra. Cercò di mostrare, disse ai giornalisti all’epoca, “il massimo rispetto per le vittime”. Dopo il caso, che si concluse con la condanna di Hass all’ergastolo, Maccioni lavorò solo in difesa delle vittime.Nel giugno 2008, si trovava a una conferenza a Cipro quando una collega gli disse en passant che pensava che Pasolini fosse il cold case più interessante d’Italia. Nel 1979, Pelosi era stato condannato a 9 anni di carcere, nonostante il caso fosse costellato da numerosi dubbi irrisolti e prove trascurate. Nel corso dei decenni, le teorie sul delitto erano proliferate, dalle più plausibili alle più fantasiose, e altri avvocati e magistrati erano riusciti a riaprire il caso, senza mai però riuscire a risolverlo. Poi, durante un’esplosiva apparizione televisiva, nel 2005, Pelosi — ormai 47enne e uomo libero — si dichiarò innocente. La sua confessione, e i seguenti trent’anni di silenzio, gli erano stati estorti con minacce di morte da parte da individui non nominati. Non era l’alto melodramma della vicenda Pasolini a incuriosire Maccioni, piuttosto la cospicua ingiustizia del caso. Il suo istinto caritatevole si era acuito dopo essere diventato padre da poco e, a quarant’anni, Maccioni si conosceva abbastanza da ammettere di essere un idealista, con una visione romantica della giustizia. Tornato nel suo piccolo ufficio di Roma, iniziò a fare ricerca. Cominciò col riprendere confidenza con la verità processuale. La confessione di Pelosi era andata cosi: quella sera Pelosi aveva incontrato per la prima volta il regista alla stazione di Roma Termini, e era salito sulla sua auto verso le 22.00. I due erano andati a cena, dopodiché Pasolini aveva guidato con lui fino a Ostia, a circa 18 miglia di distanza, per avere rapporti sessuali. Sulla piazzola sterrata, dove poi fu ritrovato il corpo di Pasolini, i due avevano cominciato a litigare. Pelosi affermò che il regista lo aveva aggredito, gridandogli “Ti ammazzo”. Pelosi aveva reagito, picchiando Pasolini con una tavoletta di legno raccolta per terra, finché il regista non fu più in grado di muoversi. Pelosi poi era salito sull’Alfa e aveva investito Pasolini. “Ero solo”, aveva concluso.Maccioni capì subito che c’erano dei problemi con questo resoconto. Per prima cosa, Pelosi aveva affermato di essere grondante di sangue quando era salito in macchina, ma l’Alfa era stata trovata con gli interni puliti. Pelosi aveva anche detto di non essersi accorto di averlo investito, ma l’autopsia rivelò che Pasolini era stato investito più volte. Secondo la verità processuale, Pelosi venne fermato dalla polizia a Ostia per eccesso di velocità all’1:30 del mattino. Ma le forze dell’ordine dissero alla famiglia che l’auto di Pasolini era stata recuperata sulla via Tiburtina, a 40 chilometri da Ostia. Perché la polizia fornì due versioni contraddittorie su dove e come venne trovata l’Alfa, non è mai stato spiegato .Maccioni stava lavorando da solo nel suo ufficio mangiando biscotti al cioccolato una sera tardi, quando tirò fuori la sentenza di primo grado del caso Pasolini, dell’aprile 1976. In Italia, i processi penali sono un procedimento giuridico a più fase. Durante ciascuna, il caso viene ascoltato da diversi tribunali e giudici. È raro che la sentenza di primo grado, ovvero della fase iniziale, cambi drasticamente come fece nel caso Pasolini. Mentre leggeva, gli venne la pelle d’oca. La sentenza di primo grado non solo aveva dichiarato Pelosi colpevole di omicidio “in concorso con ignoti”, ma aveva anche sollevato notevoli dubbi sulla confessione. Il presidente del tribunale per i minorenni aveva osservato che era “impossibile” che Pelosi fosse uscito pressoché illeso dalla colluttazione da lui stesso descritta, e che lo stato dei suoi vestiti, per lo più puliti, era inconciliabile con l’esito dell’autopsia di Pasolini. In un’altra importante discrepanza, la presunta arma di Pelosi non era compatibile con il tipo di ferite inflitte su Pasolini.Quando il processo si concluse tre anni dopo, Pelosi fu dichiarato nuovamente colpevole. Questa volta, però, scomparse ogni traccia di “ignoti”. Pelosi fu condannato. Per la magistratura italiana, il caso era chiuso.Maccioni si alzò e si mise a camminare su e giù per il suo ufficio, sfogliando le sentenze. Come era possibile che l’omicidio di un genio avesse ricevuto cosi poca attenzione? Perché la strana confessione di Pelosi era diventata la base del verdetto? Che cosa era accaduto tra una sentenza e l’altra per alterare così drasticamente il risultato? Maccioni guardò la sua scrivania, i fascicoli in disordine sotto la luce solitaria della lampada in ottone. Si sentì come se avesse appena superato una linea invisibile. Qualche mese dopo, Maccioni lesse dell’uscita di Profondo nero, un libro di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, reporter specializzati in casi di mafia e terrorismo. Il nero era un riferimento al colore delle camicie militari fasciste, che valse ai terroristi italiani di estrema destra il soprannome di neri. Era il primo a calare il caso Pasolini nel suo contesto storico. L’Italia degli anni ‘70 era un focolaio di omicidi politici. Erano gli Anni di piombo, come gli storici li avrebbero chiamati, in cui defenestrazioni, deragliamenti, rapimenti e attentati terroristici mieterono più di 400 vite innocenti. In tutta l’Europa occidentale, le operazioni “stay—behind” della NATO e le agenzie di intelligence locali tentavano di arginare la crescente popolarità dell’estrema sinistra, usando guerra psicologica e esercitazioni false flag. Gran parte della violenza in Italia fu perpetrata da gruppi di estrema destra, che cercavano di contrastare il partito comunista più potente d’Europa. La politica di Pasolini era complicata. Autoproclamatosi marxista cattolico e convinto antifascista, era stato membro del Partito Comunista fino al 1949, quando, a quanto riportato, la sua tessera fu revocata quando il partito scoprì che aveva relazioni omosessuali. Ma negli anni ‘70, la politica cominciò a monopolizzare la sua attenzione. Nel 1972 iniziò a scrivere lunghi, spassionati editoriali per il Corriere della Sera, l’influente quotidiano nazionale. Tre anni dopo, la politica infiltrò il suo lavoro da regista con Salò, o Le 120 giornate di Sodoma, di gran lunga la sua produzione più politica. La sua venticinquesima e ultima opera è un film d’epoca, che ritrae una distopia sadico-sessuale ambientata nella Repubblica Sociale Italiana, lo stato fascista istituito a Salò, vicino a Brescia, dopo l’invasione tedesca del 1943. Con grande sorpresa di Maccioni, Profondo Nero sosteneva che l’assassinio di Pasolini avesse motivazioni politiche. Il libro descriveva con dovizia di dettagli le collisioni tra le classi dirigenti politiche e industriali italiane negli anni ‘60 e ‘70, a partire dalla misteriosa morte, nel 1962, di Enrico Mattei, amministratore delegato del colosso energetico Eni. Profondo Nero raccontava che un’inchiesta decennale condotta dal magistrato Vincenzo Calia suggeriva che l’incidente aereo che aveva ucciso Mattei era stato pianificato (secondo il testimone collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, da Cosa Nostra Americana). Pasolini, spiegava il libro, aveva svolto un gran lavoro di indagine su Mattei e sul successore all’Eni, per un libro che rimase incompiuto, intitolato Petrolio.Nel marzo 2009, Maccioni presentò un’istanza chiedendo la riapertura delle indagini relative al caso Pasolini. Secondo la legge italiana, chiunque può chiedere al pubblico ministero di riaprire un caso di omicidio archiviato, presentando prove o elementi non esaminati in precedenza. Se il pubblico ministero e il giudice accolgono la richiesta, la procura inizia a indagare nuovamente sul caso. Maccioni esortò i funzionari a sottoporre le prove a moderni esaminazioni forensi, in particolare al test del DNA, e a prendere in considerazione un movente politico, che supportò allegando stralci dell’inchiesta di Calia. Un anno dopo, la sua richiesta venne accolta.Maccioni si coprì la bocca con una mascherina, si allacciò il camice chirurgico verde menta, indossò una retina per capelli turchese, copriscarpe di nylon blu e spessi guanti di plastica. Camminando goffamente nell’anticamera del RIS, in direzione delle prove non esaminate, sembrava un astronauta. Completò una sorta di battesimo forense, il processo di sterilizzazione che precede l’accesso ai reperti penali. E superò la parete di vetro, avvicinandosi alla verità. Se, come sospettava, l’esito dei test del DNA avesse suggerito che Pelosi e Pasolini non erano soli quella sera, la verità del processo del 1979 sarebbe crollata come un castello di carte.Il personale del RIS lavorava in silenzio, in piena tenuta chirurgica, con movimenti celestiali e coordinati. Uno per uno, i 29 reperti furono estratti dalle scatole. Mentre un ufficiale appendeva alcuni reperti a una lavagna, agganciandoli a un filo di nylon, un altro posava con cura gli altri su una scrivania rivestita di tessuto sintetico blu. Ogni reperto era numerato con un grande cartellino di cartone. Alcuni venivano posati accanto a righelli, come riferimento per le dimensioni. Tutti i reperti tessili con tracce di materia organica venivano tagliati in piccoli campioni e sigillati in sacchetti di plastica per essere inviati in laboratorio. Un agente con una fotocamera DSLR fotografava tutto, con il flash. Il forte schiocco dell’otturatore scandiva ogni scatto. Gli slip neri di Pasolini. Click—zzh. I calzini marroni di Pasolini. Click—zzh. I jeans Lois di Pasolini, macchiati di sangue sopra l’inguine. Click—zzh. Le chiavi di Pasolini. Click—zzh. La tessera stampa di Pasolini. Click—zzh. L’immacolata giacca da cowboy color cioccolato di Pasolini, con toppe tartan sugli orli e sulle spalle. Click—zzh. Il maglione di Pelosi. Click—zzh. La maglietta di Pelosi. Click—zzh. La giacca da baseball di Pelosi. Click—zzh. Una mappa. Click—zzh. Un pettine. Click—zzh. La tavoletta di legno rotta che era stata indicata come arma da Pelosi. Click—zzh.Alcuni oggetti di uso quotidiano, così disarmanti nella loro ordinarietà, suscitarono in Maccioni un profondo disagio. Anche se intrisa di sangue, la camicia Missoni di Pasolini era bellissima. Tessuta in cotone fine lavorato a maglia, la fantasia era un mare di strisce ondulate. Maccioni immaginò Pasolini a petto nudo, l’ultima mattina della sua vita, che la sceglieva dal suo armadio. Pensò a tutte le mattine in cui, come lui, aveva scelto una camicia per la giornata.Gli oggetti straordinari che uscirono dalle scatole erano ben peggiori. Il più importante era l’anello di Pelosi. Poggiato su un minuscolo piedistallo sulla scrivania stracolma di fronte a lui, con una pietra di vetro ovale sproporzionatamente grande, di color cremisi, guardava Maccioni come un malocchio. Negli anni ‘70, era stato proprio quell’anello il cardine che aveva tenuto insieme la verità processuale. Dopo l’ arresto, Pelosi aveva insistito perché la polizia cercasse il suo anello preferito. Sosteneva di averlo perso, nonostante gli andasse molto stretto, al dito mignolo. L’anello, che venne poi ritrovato accanto al corpo di Pasolini, confermò la presenza di Pelosi sulla scena del crimine.Maccioni si voltò, per guardare gli effetti personali di Pasolini. I suoi occhiali con grandi lenti ombreggiate, a forma di occhio di mosca, evocavano perfettamente l’immagine freddamente coltivata del regista scomparso. Chiunque avesse anche solo intravisto una foto di Pasolini aveva visto quegli occhiali. Li aveva indossati per i cocktail party, proiezioni in smoking e mentre dirigeva film in tutta Europa. Maccioni sapeva che in molti liquidavano questa abitudine come un vezzo acquisito con la fama. Ma sapeva anche che le persone più vicine a Pasolini la consideravano una forma di auto protezione, una “stampella emotiva, che lo aiutava a portare con sé il peso di una straordinaria sensibilità”, secondo un amico stretto.Che la vita di Pasolini fosse stata segnata da traumi non è mai stato contestato. All’età di 19 anni, sfollò da Bologna con la madre Susanna e il fratello minore Guido, per prendere rifugio dai bombardamenti americani a Casarsa. Guido adorava Pier Paolo, il suo intelletto e i suoi ideali rivoluzionari. Pier Paolo sapeva di aver in qualche modo radicalizzato il fratello. Era stato Pier Paolo a portare Guido alle riunioni. Era stato Pier Paolo a dargli una pistola. Era stato Pier Paolo ad accompagnarlo a prendere il treno per il fronte, nel 1944. Non molto tempo dopo, Guido fu ucciso da nazionalisti jugoslavi, mentre combatteva con la resistenza partigiana. Pasolini fu tormentato dal suo ruolo nella vicenda della morte del fratello Guido per il resto della sua vita. Rimasti soli, e in lutto, Pasolini e la madre Susanna si avvicinarono sempre di più. Ma nell’aprile del 1976, la famiglia Pasolini si ritirò “senza acrimonia o arroganza” dal processo per omicidio. Susanna cominciava a mostrare i primi segni di senilità e, dopo aver perso il secondo figlio morto di una morte violenta, si ritirò dietro un velo di silenzio fino alla sua morte, nel 1981. Maccioni, che incontrò in una sola occasione un membro della famiglia, si chiese spesso come facessero a non essere mossi all’azione dalle molteplici assurdità del caso, dai martellanti dubbi irrisolti e dalle testimonianze contraddittorie. L’avvocato a volte pensava di dover portare avanti l’inchiesta sul suo omicidio anche per loro. Ora era responsabile del più grande sviluppo nel caso dal 1975, il test del DNA. Click—zzh. Un agente fotografò gli occhiali da sole, e passò oltre.Una mite notte di settembre scendeva su Venezia. Erano passati quattro anni dalla riapertura dell’inchiesta. Sebbene Maccioni non fosse al corrente di tutti gli sviluppi delle indagini, che erano informazioni riservate, era ancora convinto che l’esito dell’inchiesta avrebbe riscritto la verità su ciò che era accaduto la notte in cui Pasolini fu ucciso. Stava in piedi da solo, un po’ agitato e impaziente nel suo miglior abito nero, fuori dal Palazzo del Cinema. Osservava in silenzio le celebrità che emergevano dai motoscafi di legno laccato, in smoking firmati e abiti couture a sirena. Si trovavano lí per la settantunesima Mostra del Cinema di Venezia e per la prima di Pasolini, diretto da Abel Ferrara e interpretato da Willem Defoe. Il film si proponeva di mostrare la verità sulle ultime ore di vita di Pasolini. Maccioni si domandava se lo avrebbe fatto davvero.Ferrara, un autore neo-noir noto per film controversi come Il cattivo tenente, arrivò in pompa magna, l’autoproclamato biografo di Pasolini. Salutò la folla in camicia sbottonata, tenendo per mano la sua partner ventenne impaillettata. Aveva un’aria compiaciuta, pensò Maccioni. Qualche settimana prima, Ferrara si era presentato nell’ufficio di Maccioni, con una traduttrice e un’assistente al seguito. L’avvocato offrì loro caffè e pasticcini alla marmellata del supermercato. Poi parlò a lungo. Pelosi, disse, non aveva solo ritrattato la sua confessione, ma aveva anche ammesso, nella sua autobiografia del 2011, che lui e Pasolini si frequentavano dall’inizio del luglio 1975. Se vero, ciò avrebbe compromesso in modo significativo l’interpretazione culturale più consolidata del crimine come la conseguenza morale di un rapporto immorale. Maccioni chiese a Ferrara quale versione dell’omicidio intendesse mostrare. “Se questo non è il paese dei misteri!” Ferrara rispose, scuotendo la testa. “Voi italiani siete incapaci di risolvere i vostri omicidi!”. (Ferrara disputa il racconto di Maccioni sull’incontro.)Maccioni sapeva che Ferrara aveva ragione, ma temeva che il regista ignorasse il contesto culturale, in particolare la storica rigidità e moralismo sessuali degli italiani. Le donne, fino al 1968, potevano essere processate per adulterio. All’epoca dell’omicidio Pasolini, se i mariti le uccidevano, la “passione” era un’attenuante perfettamente accettabile, e il divorzio era diventato legale da soli cinque anni. I detrattori di Pasolini erano allo stesso tempo urtati e ossessionati dalla sua aperta omosessualità. La loro fissazione, per quanto morbosa e voyeuristica, era ampiamente condonata a causa delle relazioni che Pasolini intratteneva con uomini molto più giovani di lui. Nel 1949 fu accusato di “atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minori”, dopo controversi eventi che, secondo quanto riportato, coinvolsero ragazzi minori di 16 anni. Alla fine, tutte le accuse furono ritirate, anche se lui non le mai aveva negate. In seguito alle denunce, Pasolini si trasferì a Roma dove, nel corso degli anni, venne citato in 33 azioni legali — per “pornografia”, per “blasfemia” — e venne assolto in 33 occasioni.Nel 1964, Pasolini stesso sondò l’opinione pubblica italiana in un documentario intitolato Comizi d’amore. Girato in tutta la penisola, il film mostra un Pasolini quarantunenne, vestito in modo informale, che faceva domande, a bambini napoletani come a frequentatori di locali fiorentini, sulla parità dei sessi, l’educazione sessuale, il divorzio e l’omosessualità. Il suo carattere curioso e gentile sembra forare lo schermo, e la sua placidità non vacilla mai, anche quando gli intervistati descrivono il loro “terrore” e la loro “ripugnanza” nei confronti degli omosessuali — senza sapere che stanno parlando con un uomo gay.L’omofobia che Pasolini aveva catturato pesò molto nel suo caso di omicidio. Secondo la professoressa Carla Benedetti, una delle più importanti studiose di Pasolini, la confessione di Pelosi del 1975 — con i suoi dettagli grafici — innescò una revisione di massa della vita e delle opere di Pasolini, attraverso il prisma del sesso gay “patologico”. Un truce omicidio che coinvolgeva un sex worker minorenne quasi analfabeta screditava completamente gli editoriali politici di Pasolini. E, convenientemente per i revisionisti, l’incompiuto Salò raffigurava torture sado-masochistiche. Non importava, nota Benedetti, che l’abuso sessuale in Salò fosse inteso come una critica marxista della “mercificazione del corpo da parte del capitalismo”. Dopo la confessione di Pelosi, l’intera eredità artistica del regista fu messa alla gogna come prova dei suoi desideri più sfrenati. Alla fine, il movente sessuale non solo soddisfò l’inestinguibile sete di gossip del Paese, ma fece sì che la verità processuale coincidesse perfettamente con l’opinione pubblica. Tutto questo sfuggiva a Ferrara, pensò Maccioni, guardando Pasolini dal suo posto in quarta fila, il più economico che riuscì a trovare. La somiglianza di Defoe con il regista scomparso era sorprendente: stessi zigomi di diamante, stessa compostezza imperturbabile, stessi occhi penetranti. Ma la storia del film, Maccioni pensò, era un’affannosa recita della verità processuale, in cui Pasolini veniva dipinto come il comunista malato, depravato e pericoloso. Ed era proprio questa la narrazione che lui aveva passato anni a tentare di confutare.Quando Maccioni lasciò il palazzo, la mite aria serale era piacevole sulla pelle. Decise di camminare fino al porto. Era strano tornare in una stanza d’albergo a buon mercato e poco illuminata, mentre quando Venezia era tutta abiti di chiffon e festeggiamenti con fiumi di Campari. Ma Maccioni non aveva nulla da festeggiare; la gente avrebbe visto Pasolini e avrebbe creduto alla verità processuale. Per tirarsi su di morale, Maccioni si mise a pensare all’indagine in corso a Roma. Aveva lentamente iniziato ad apprezzare i film di Pasolini e si divertiva a guardarli da solo, tardi la sera, mangiando biscotti con la Nutella. Al diavolo Venezia!, pensò Maccioni. Era certo che alcune delle sue piste avessero il potenziale per confutare in modo irreversibile la verità processuale.Il treno ad alta velocità sfrecciava come un proiettile nella notte. Era novembre 2015 e Maccioni stava tornando da Livorno, a circa 300 chilometri a nord di Roma, dove aveva lavorato a un caso. Sotto il bagliore fioco della plafoniera, cercava di concentrarsi sulla lettura.Gli ultimi mesi erano stati difficili. Dopo la separazione dalla moglie, Maccioni aveva lasciato la casa in cui vivevano con i loro due figli. Perderli era stata la cosa più difficile che avesse mai dovuto affrontare. Ma lavorare al caso Pasolini era una sorta di balsamo lenitivo. Poi, a maggio, l’indagine venne chiusa. Maccioni aveva trascorso cinque anni a scovare e fornire al pubblico ministero nuove piste. Oltre al DNA, aveva rintracciato testimoni oculari che non erano mai stati ascoltati in tribunale. I loro racconti sostenevano la teoria secondo cui più persone avevano assistito all’omicidio e mettevano in discussione il racconto di Pelosi sotto numerosi altri aspetti. I risultati dell’analisi del DNA mostravano che i reperti contenevano tracce di cinque profili genetici distinti, anziché i due previsti. Inoltre, il nucleo investigativo dei carabinieri aveva ascoltato le deposizioni di diversi nuovi testimoni. Eppure, la relazione della procura concludeva inspiegabilmente che “tutte le prove portavano a definire l’omicidio Pasolini come un assassinio legato a un contesto di prostituzione e perpetrato esclusivamente da Pelosi”. Liquidava come irrilevanti tutti gli elementi portati alla luce da Maccioni, che suggerivano un movente politico.Mentre il treno notturno sferragliava lungo la costa, Maccioni guardò fuori dal finestrino. Era buio come doveva essere stato quella notte di novembre, pensò. Più tardi, mentre scorreva distrattamente le notizie sul suo telefono, un articolo su un nuovo film attirò la sua attenzione. La macchinazione, scritto e diretto dall’ex collaboratore di Pasolini, David Grieco, intendeva mettere in discussione la verità processuale. Pochi minuti dopo, Maccioni chiamò Grieco. Si alzò e si diresse lungo il corridoio verso il punto più rumoroso della carrozza, vicino alle porte, accanto alla toilette. Non voleva che nessuno lo sentisse. “David? Sono Stefano Maccioni. Sono l’avvocato che si occupa del caso Pasolini.”“Ciao Stefano. So chi sei”.La voce di Grieco era setosa, rassicurante. Era stato attore, sceneggiatore e regista, e aveva lavorato con artisti come Franco Zeffirelli e Bernardo Bertolucci. Grieco era stato anche un protegé e un amico stretto di Pasolini. Nel 1976, Grieco aveva redatto il discorso che la famiglia del regista lesse quando si ritirò come parte civile dal processo penale. In un certo senso, anche lui era famiglia. Il giorno dopo l’omicidio, Grieco disse a Maccioni, era rimasto impresso a fuoco nella sua mente. La sua ragazza lo aveva svegliato verso le 7 del mattino, singhiozzando. “Hanno ucciso Pasolini”, aveva detto. “L’ho sentito alla radio. Dicono che è stato trovato in una piazzola sterrata a Ostia”. Grieco ricordava. Aveva guidato il suo motorino fino a Ostia quel giorno, sotto una cortina di pioggia, Là aveva trovato una “scena surreale, uscita direttamente da un film di Fellini”. Il corpo del suo amico giaceva sulla piazzola sterrata, per niente protetto da una folla di curiosi che gli brulicava intorno. “C’erano persino dei bambini che giocavano a calcio”, disse. “Ogni tanto la palla volava troppo vicino al corpo e i poliziotti la rimandavano indietro con un calcio”.Ferrara, continuò Grieco, gli aveva chiesto di scrivere la sceneggiatura per Pasolini. Ma i due erano in disaccordo su aspetti fondamentali. (Ferrara disputa la versione dei fatti di Grieco.) Aveva scritto La macchinazione poco dopo. Lui e Maccioni continuarono a parlare, come fratelli riuniti dopo una lunga guerra, finché il treno non giunse al capolinea.All’inizio del 2016, Grieco fece vedere il suo film a Maccioni. La macchinazione è un noir elegante, complesso, che tesse una rete che tenta di collegare Pelosi, la classe dirigente italiana, i criminali di estrema destra e i servizi segreti. È a tutti gli effetti un’opera di finzione. Ma Maccioni apprezzò il fatto che incorporasse prove che, secondo lui, i magistrati e procuratori avevano trascurato per anni. La Macchinazione non fu mai distribuito nelle sale cinematografiche italiane. Ma fu proiettato nella camera dei deputati, dove vari politici avevano lavorato per istituire la prima commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio. Invitarono Maccioni e Grieco a tenere un discorso. “Quando ho iniziato, nel 2008, non avrei mai immaginato di trovarmi di fronte a una commissione parlamentare d’inchiesta”, Maccioni disse nel suo lieve accento toscano. Parlava in un’austera sala stampa rivestita in legno, di fronte a file di banchi concentrici. Fece finta, con garbo, di non notare che i posti erano mezzi vuoti, mentre procedeva a elencare esempi di negligenza legale nel periodo successivo all’omicidio. Il nastro originale del telegiornale della sera, trasmesso per la prima volta alle 20.30 del 2 novembre 1975, conteneva lunghe parti della confessione di Pelosi, disse Maccioni. “Oltre all’ovvio fatto che trasmettere una confessione è una violazione del segreto istruttorio,” spiegò, “il telegiornale poteva aiutare coloro che erano stati coinvolti nel crimine istruendoli su cosa dire nelle deposizioni ufficiali.” Grieco prese la parola dopo di lui. “Quando la confessione di [Pelosi] fu trasmessa, il corpo di Pasolini era ancora caldo,” disse. Elencò poi gli ostacoli incontrati nel tentativo di far distribuire La Macchinazione in Italia. “Siamo stati occultati in tutti i modi possibili”, disse Grieco. “L’ufficio censura inizialmente voleva mettere una restrizione di età superiore ai 14 anni sul mio film — una cosa mai vista, nemmeno nel porno!”. I partecipanti alla conferenza stampa riuscirono a trattenere a stento le risate.Qualche settimana dopo, sperando di sfruttare il clima politico, Maccioni e Grieco presentarono un’altra istanza richiedendo la riapertura delle indagini. Ma a dicembre la commissione parlamentare si scioglieva già, insieme al governo Renzi che aveva contribuito a istituirla. L’estate successiva Pelosi morì di cancro e, pochi mesi dopo, i pubblici ministeri respinsero la richiesta di Maccioni.Maccioni non riuscì a individuare il momento esatto in cui il suo fascino per Pasolini, l’intellettuale, superò il suo interesse per Pasolini, il cold case. Non aveva mai conosciuto il regista. Eppure lo difendeva con un fervore non inferiore a quello di Grieco, che lo aveva incontrato da bambino e ricordava vividamente l’ultima volta che lo aveva visto vivo. La celebrazione romantica dell’Italia rurale preindustriale di Pasolini riportava Maccioni alla sua infanzia Toscana. Il “cattolicesimo intimo e arcaico” del regista risuonava profondamente con Maccioni, che era mosso dagli stessi valori cristiani che Pasolini aveva così fortemente rappresentato nella sua epopea biblica del 1964, Il Vangelo secondo Matteo. L’integrità bellicosa e intransigente di Pasolini, che illuminava la sua scrittura, evocava in Maccioni gli stessi sentimenti che lo avevano ispirato a intraprendere la sua carriera. “Sono diventato avvocato”, diceva spesso, “per difendere coloro che non possono difendersi da soli.” Poche vittime sembravano a Maccioni più indifese di Pasolini. Era stato abbandonato dalle persone che aveva amato dopo il suo omicidio e, cosa peggiore, la sua uccisione era stata strumentalizzata in una crociata per annientare la sua eredità artistica. A volte, esaminando le carte del tribunale fino a tarda notte, Maccioni poteva quasi sentire la sua voce: La verità è qui, da qualche parte. Grieco la chiamava, scherzosamente, “febbre pasoliniana”. Alla fine la febbre scese. Il decimo anniversario di Maccioni sul caso era passato e la sua determinazione, indebolita da una serie di rifiuti consecutivi, era stata ulteriormente appesantita da due anni di pandemia. Grieco e Maccioni erano ancora amici, ma non parlavano quasi più di Pasolini. Finché una sera del 2022, a cena insieme, Grieco intuì che Maccioni non aveva ancora chiuso con il caso. Gli suggerì di scrivere un libro. “Prendi un registratore, chiuditi in una stanza e racconta tutta la storia ad alta voce”, gli disse Grieco, tra un boccone e l’altro di supplì. “Ti uscirà tutto fuori. Ti sentirai meglio. Vedrai”.Maccioni decise di annullare tutte le riunioni per il lunedì successivo e comprò un registratore vocale portatile vecchio stile. Portò a casa dal suo ufficio un mucchio di scatoloni e faldoni contenenti le sentenze, i ritagli di giornale e gli atti giudiziari che documentavano 47 anni di storia giuridica. Ne infilò alcuni nel bagagliaio del motorino e mise gli altri in una grande borsa appoggiata precariamente tra i suoi piedi. Sfrecciando nel traffico romano, l’idea di riassumere tutto in alcune pagine sembrava ridicola.Arrivò il lunedì. Fuori dalla porta—finestra della cucina di Maccioni, un nitido sole invernale faceva capolino tra le grandi foglie di un verde fuori stagione dei platani di fronte al balcone del secondo piano. La sua cagnolina Thea, dal pelo color cappuccino, sonnecchiava, come faceva ogni volta che lavorava da casa, sulla sedia accanto a lui. Maccioni tirò fuori un pacchetto di biscotti. Riempì la macchina del caffè con acqua tiepida di rubinetto, inserì una cialda sotto la leva e premette il pulsante. La macchina emise un forte ronzio e un forte aroma di espresso riempì la stanza. Bevve un grosso sorso di caffè, prese il registratore, e iniziò a parlare. Continuò a parlare, senza interruzione, per cinque ore consecutive. Camminava tracciando cerchi intorno al tavolo di cucina, una dichiarazione del testimone in una mano, il registratore nell’altra e un articolo di giornale infilato sotto l’ascella come una baguette. Fece vasche, su e giù per il corridoio, correndo di tanto in tanto in cucina per recuperare un documento. Quando riascoltò il nastro, Maccioni sentì la sua voce come se sfrecciasse per la stanza, sciogliendo nodi, tracciando profili, disegnando diagrammi. Si rese conto, con disarmante chiarezza, che era anche la storia della sua vita. Rivide il volto della sua collega quando pronunciò per la prima volta il nome di Pasolini a Cipro, lo sguardo atroce dell’anello di Pelosi, Ferrara che si guardava intorno nel suo ufficio e lo scompartimento del treno dove sentì per la prima volta la voce di Grieco. Maccioni capì che il suo lavoro sul caso aveva piantato il seme del suo divorzio. Mamma mia!, pensò, sono passati quattordici anni. Quattordici anni di raccolta di prove. Quattordici anni a redigere documenti, condurre interviste, presentare richieste. Quattordici anni a credere che la verità fosse a portata di mano. E a cosa era servito? Per chi lo aveva fatto? Per Pasolini? Per se stesso? Per l’Italia? Non lo sapeva. Nell’ottobre del 2022, Maccioni ricevette una telefonata dal suo medico. Un esame del sangue era risultato positivo per un cancro al colon. Due settimane dopo, venne sottoposto a una resezione segmentaria per rimuoverlo. A causa delle restrizioni Covid, non gli fu permesso di avere visite in ospedale, così passò le giornate da solo, incapace di camminare o dormire, nel reparto di oncologia accanto a un paziente emorragico. Sentì un profondo bisogno di tirare avanti.A dicembre, Maccioni stava riposando a casa, cercando di prendere peso e tornare a camminare senza stampelle, quando ricevette un messaggio da Grieco, con un link a un articolo di cronaca che faceva piombare nelle vite di entrambi una delle teorie più intriganti e poco indagate su ciò che accadde la notte dell’omicidio di Pasolini. Nell’estate del 1975, una selezione di bobine cinematografiche sparì dai congelatori di una società romana di effetti visivi. Erano state accuratamente selezionate tra chilometri e chilometri di pellicola, dichiarò un portavoce alla stampa. Ed erano immensamente preziose perché contenevano le esatte scene scelte dai registi per la versione finale dei loro film in produzione, che non erano ancora stati montati. Le bobine contenevano i negativi di Salò di Pasolini, Il Casanova di Federico Fellini e Un genio, due compari e un pollo di Damiano Damiani, prodotto da Sergio Leone. L’episodio divenne noto come “il furto delle pizze”, a causa della loro forma, a disco.Fu la prima e unica volta nella storia del cinema che delle bobine vennero rubate per estorsione. I ladri chiesero 2 miliardi di Lire, l’equivalente dell’epoca di 20 milioni di euro, in cambio della loro restituzione. Salò più di ogni altro rischiava di subire un danno grave, perché non esistevano copie dei negativi rubati. Prima ancora di leggere la storia, Maccioni pensò a Sergio Citti, il co—sceneggiatore di Salò che per 30 anni aveva cercato di farsi ascoltare dai magistrati sul furto delle pizze. Nel 2005, sentendosi ignorato dalle autorità e ormai malato terminale, Citti disse a un giornale italiano che Pasolini aveva un appuntamento per recuperare le pizze rubate vicino a Ostia e che Pelosi sarebbe andato con lui. Citti sostenne di aver negoziato lo scambio con un malavitoso, che poi confermò la testimonianza di Citti in un interrogatorio nel 2011.Maccioni aprì il messaggio di Grieco. Un altro membro della banda aveva confessato alla Commissione antimafia di aver preso parte al furto delle bobine di Salò. Non era stato coinvolto nell’omicidio, aveva detto, ma era disponibile a collaborare con le autorità sul caso Pasolini. Maccioni chiamò immediatamente Grieco, e scaricò la relazione della Commissione antimafia. Già molto tempo prima, i due avevano parlato della possibilità che Pasolini fosse stato ucciso o nel tentativo di recuperare le pizze, o che lo scambio fosse un espediente per assassinarlo. Improvvisamente, c’erano prove sufficienti per portare avanti entrambe le piste.Nel marzo del 2023, Maccioni e Grieco presentarono un’altra istanza di riapertura delle indagini, sollecitando il pubblico ministero a riascoltare il mafioso che si era reso disponibile, e a effettuare ulteriori test del DNA. In un comunicato, la procura comunicò che gli elementi sollevati non riguardavano direttamente l’omicidio, ma “episodi sullo sfondo”. La richiesta venne respinta. Parlai per la prima volta con Maccioni in una videochiamata da Londra, due giorni dopo il rigetto dell’istanza del 2023. In un abito appena inamidato, seduto alla sua scrivania a Roma, riusciva a malapena a parlare del significato dell’ultimo rifiuto. Mi sarei resa conto solo settimane dopo, visitando il suo ufficio, che lo spazio a me allora invisibile, dietro al suo monitor, è costellato di reliquie di anni di lavoro sul caso Pasolini: foto incorniciate, un poster firmato, pile di libri. Quando iniziammo a parlare, la sua postura era rigida, la voce flebile. Dopo qualche domanda, iniziò a gesticolare, la sua voce si intiepidì e cominciò a fare qualche digressione. A un certo punto, fece una battuta. Qualcosa in lui, indurito da 15 anni di vicoli ciechi, si era nuovamente ammorbidito, messo di fronte a un pubblico rapito.Prima di salutarci, Maccioni mi disse: “Molte volte, nel corso degli anni, ho cercato di fare del mio meglio per mettere da parte questo caso e andare avanti con la mia vita. Ma ogni volta che ci provo, una nuova persona, o un evento senza precedenti, appaiono dal nulla e mi trascinano di nuovo in questa storia”. Capii che si riferiva a questo articolo.

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